martedì 25 agosto 2009

La mia visione della riabilitazione... e della vita.


La Riabilitazione Neurocognitiva è una riabilitazione prima di tutto "etica": è un approccio al bambino, e NON è una metodica, intesa come insieme di manovre. Quello che segue è un mio articolo pubblicato anni fa su una testata del XIII municipio: oggi (per fortuna) gli esercizi che propongo sono un pò diversi rispetto a quando lo scrissi, ma la mia idea sulla riabilitazione non è cambiata da allora.


Della riabilitazione e dell'essere terapista


Spesso mi chiedo perché ho scelto di essere una terapista. Avrei potuto scegliere tante altre strade, pur seguendo la mia indole, e andare incontro al prossimo in altro modo eppure, per una serie di motivi e di casualità, mi ritrovo oggi ad essere quello che sono, e di occuparmi nello specifico di riabilitazione dei disturbi neurologici dei bambini.
Ho incontrato in questi anni e continuo ad incontrare ogni giorno bambini con le più svariate patologie, di età che vanno dal neonato al preadolescente, e ad ogni livello di gravità; famiglie di tutti i tipi, dal genitore solo con bambino, alla famiglia allargata; e di tutti i livelli socioculturali. Queste famiglie hanno qualcosa in comune, e cioè la vita con la disabilità, ed è stato anche il venire a contatto con queste persone che ha fatto di me la terapista che sono oggi.
Quando arrivano a me, alcuni, se non quasi tutti, dei genitori che incontro sono già passati per molte delle tappe di ricerca di soluzioni risolutive; dalla diagnosi buttata lì senza spiegazioni, senza aiuto, senza sostegno; passando per l'incontro con i medici e terapisti del servizio sanitario nazionale; fino ai tentativi più disparati di fare qualcosa che aggiusti il problema, comprese terapie da 20 ore al giorno e viaggi oltreoceano dove viene proposto null'altro che le stesse identiche cose che si fanno qui, ma fatte per lo più molto peggio (ma lì sono a pagamento, quindi necessariamente devono essere meglio).
Queste famiglie sono spesso distrutte dalla medicalizzazione.
Dalla diagnosi, a volte difficile e comunicata in modo poco attento e rispettoso dei sentimenti della famiglia, fino ai tentativi, riusciti o (molto più spesso) meno, di riaggiustare dove è rotto, questi bambini sono disumanizzati, deprivati della loro complessità, ridotti a macchine da riparare, dove ogni specialista stacca il suo pezzo, lo tratta e lo riattacca come se questo fosse sufficiente e garantisse un recupero qualitativo.
Bambini disgregati, privati della loro unitarietà di persone, della loro capacità, seppur diversa, seppur al primo approccio non immediatamente comprensibile, di pensiero, e relegati ad essere meri esecutori di ordini, gesti, posture, movimenti ripetitivi; dove i tentativi di ribellarsi ad un'ottica che li vede come un semplice insieme di riflessi, nel tentativo di comunicare il sacrosanto disagio, vengono non solo ignorati del tutto, ma liquidati con un è svogliato... non ha volontà, colpevolizzando il paziente (che spesso non può comprendere l'insulto e che quindi non può rispondere), anche se il bambino ha 13 mesi, anche se ha una grave patologia, anche se di un bambino sano che non ha voglia di fare qualcosa che gli crea dolore, disagio, o anche solo noia, nessuno si sognerebbe mai di mettere in discussione la voglia, per di più dandogliene la colpa. Semmai (giustamente) si dà la colpa al docente che non è capace; in riabilitazione accade assolutamente il contrario.
In quest'ottica si cerca sempre di più, dove il “di più” è sempre di tipo quantitativo (più ore, più terapia, più terapie) e praticamente mai qualitativo, nonostante gli ultimi studi di neuroscienze confermino come l'esperienza abnorme alteri le sinapsi creando disorganizzazione a livello neuronale e facendo emergere comportamenti maladattativi (cosa che non si verifica invece in assenza di esperienza... il che in soldoni significa che una cattiva riabilitazione è molto peggio di nessuna riabilitazione).
Questi genitori si sentono in colpa, perché signora, la colpa è sua che non fa questo questo e questo, ecco perché il bambino non migliora: un atteggiamento intellettualmente disonesto, perché accusa chi non ha colpe, di una propria responsabilità, ovvero il non poter o più spesso il non essere in grado di aiutare il paziente, nonostante il ruolo terapeutico che si dovrebbe ricoprire.
Questi genitori non sono aiutati nel saper guardare i loro figli come dei bambini con necessità conoscitive, poiché questi figli sono sempre stati presentati solo come quello che non sa fare, il punteggio che ha ottenuto nella scala di valutazione X, la patologia Y, quello che non potrà, quello che non farà.
Sempre più spesso la riabilitazione si riduce a procedure di tipo medico più che riabilitativo con finalità e scopi che non vengono condivisi con il bambino stesso (altrimenti perché mai dovremmo sostenere che un bambino in terapia, se piange alle mobilizzazioni cruente è normale?); dove la terapia sembrerebbe servire non tanto al bambino, per permettergli una maggiore conoscenza del mondo e di sé, una maggiore consapevolezza ed una migliore capacità di relazione (e quindi, per renderlo una persona più felice), quanto ad occuparlo in qualche modo, a farlo semplicemente muovere, purché si muova!, dove per anni viene ripetuto lo stesso movimento, nello stesso modo, uguale per tutti, e così via da decenni.
La differenza tra fare il terapista ed essere terapista è tutta lì: nell'incontro con il bambino, entrare nel suo mondo al suo stesso livello, sapendo di incontrare un essere unico, di essere di fronte a qualcuno di irripetibile, con le sue difficoltà ma anche con le sue possibilità da tramutare in capacità con l'aiuto della mediazione terapeutica, di modo che la terapia tiri fuori il meglio che questi bambini possono essere, lavorando su quella che Vygotskij chiamava area di sviluppo potenziale, e non il peggio, con pianti, urla, strilli, apatia.
E' necessario stabilire obiettivi precisi, che tutti possano valutare nella vita quotidiana (l'obiettivo effettua la flesso estensione del gomito non serve a niente, se la flesso estensione non viene utilizzata per fare una carezza alla mamma, prendere un gioco, andare a toccare un gatto per sentire com'è peloso), e specificare come si intende raggiungerli ed in quali tempi.
Non si può fare i terapisti. Bisogna esserlo, e per essere terapisti occorre costruire un'interazione assolutamente specifica, ed esercizi che vanno bene non per la tetraparesi, non per il livello di sviluppo tal dei tali, ma solo ed esclusivamente per Livia, per Michele, per Tiziano, per Flavio. Perché se si vuole curare la persona, e non la malattia, la riabilitazione deve passare dall'essere un problema medico, ad essere un problema etico. Perché dietro ad ogni approccio c'è una visione dell'Uomo: se la visione generale è di stampo meccanicistico, dove la persona non è più persona, ma numero, patologia, assenza di capacità, questo è un problema riguarda tutti, e non solo chi ha avuto in dono dalla sorte un bambino speciale.
Fabiana Rosa
(Pubblicato su "Zeus", Marzo 2009)